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“Se hai fame, non venire a
mangiare qui”, ho sentito in una trattoria di Ischia. Parole incomprensibili,
se mangiare fosse solamente una questione di nutritional facts. Poiché anche di
cultura e società si tratta, queste parole si inscrivono nel quadro generale
della condizione incarnata dell’uomo. Non basta dire “materiale”, come se il
tipo di materia non avesse importanza. “Carne” è un termine più eloquente e
impegnato perché posiziona questa materia nel flusso generazionale, nella
geografia, nella genealogia, nelle risoluzioni e capricci degli antenati, in
paesaggi concreti, vicende dei popoli, territori particolari, flore e faune
prodighe o avare: in ogni caso specifiche.
Avevo sentito parlare di
questa trattoria per la qualità della sua cucina e per la genuinità garantita
delle materie prime che utilizza, ma quello che mi ha spinto a conoscerla è
stato il lessico narrativo con cui mi hanno invitato: “Ti racconto il
territorio con i sapori”. Una presentazione ambiziosa trattandosi di un’isola
profusamente narrata nel corso della storia. È molto probabile che Ischia fosse
l’isola dei Feaci dell’Odissea; è stata il primo insediamento della Magna
Grecia; al largo delle sue coste è passato san Paolo prima di attraccare a
Pozzuoli; il Castello Aragonese, quasi simbolo dell’isola, ricorda la sua
storia a partire dalla dominazione di Siracusa nel secolo V a.C., e prima della
dominazione degli spagnoli passarono di lì partenopei, visigoti, vandali,
ostrogoti, arabi, normanni, svevi; a Casamicciola Ibsen scrisse il Peer Gynt...
Se qualcuno vuole ingerire
lì un hot dog con Coca-Cola ha tutta la mia comprensione, la stessa che mi
sforzai di avere con chi una volta chiese a un mariachi[1] di suonare El
porompompero[2].
Peccato che la comprensione non basti a risanare un contatto vitale mancato.
Quella persona, compresa e compatita, resterà ignara di ciò che è la musica di mariachi,
così come quell’altra non sarà mai stata a Ischia, se non per le coordinate di
longitudine e latitudine. Non avrà vissuto la condizione di “isola di terra”
grazie alla quale Ischia annovera tra le sue tradizioni il coniglio e le
lumache, né avrà sintonizzato il palato con la terra su cui mise piede,
attraverso i prodotti che essa offre rigogliosa: ciò che fa sì che, quando il
chef ha bisogno di un’erba, chieda a sua madre di andarla a cercare sul monte.
Troppo spesso passa
inosservato qualcosa di ovvio: ogni terra offre determinati prodotti, e non
altri, che la gastronomia locale sviluppa in certi modi e non altri. Ischia
celebra la sagra della lumaca e della zucca in settembre, quella del fungo e
della castagna in novembre. Durante la mia prima visita a Il Focolare, il
signor D’Ambra – proprietario della trattoria – mi confidò la sua
preoccupazione per il futuro che si apre – o si chiude – con gli OGM: semi che
non producono altri semi, per cui ogni nuova semina comporta un nuovo acquisto
con la conseguente dipendenza di intere nazioni sempre più prese per il collo.
A due anni di distanza egli si rivela più cauto, dice infatti di non poter
escludere che gli OGM riescano ad abbattere la fame in qualche regione della
terra. (La sua cautela è anche una strategia discorsiva: evitare il rischio di
addurre troppe argomentazioni che, ad una ad una, possano rivelarsi poco
valide, togliendo attendibilità alla prova decisiva che un giorno potrebbe
arrivare a conferma del suo rifiuto.) La sua preoccupazione per gli OGM resta
però radicale in un punto: l’appiattimento dei sapori. Se il grano sarà lo
stesso in Ucraina e in Argentina... se gli agrumi saranno gli stessi in Israele
e in Sicilia... Un duplice impoverimento: nella varietà dei prodotti e nella
sensibilità delle persone.
Ed ecco toccare la nota
dolente, quella delle legislazioni che sembrano bandire ciò che è naturale,
cosicché chi lavora i prodotti in modo genuino viene a trovarsi fuori legge (un
esempio fra tanti: i polli ruspanti). Negli ultimi anni, più volte è scattato
l’allarme che la pizza artigianale, cotta nel forno a legna, fosse sul punto di
essere dichiarata illegale, lasciando campo libero alla pizza impacchettata,
pronta per il microonde. Riportando il caso in termini di gastronomia messicana
si potrebbe immaginare che da un momento all’altro i tacos diventassero
illegali, ad eccezione di alcune marche, impacchettate sotto vuoto. Non
mancherebbero certo ragioni igieniche da accampare, ma sarebbero le ragioni di
un mondo sterilizzato, con il piccolo particolare che il mondo reale non è
affatto sterilizzato.
La trattoria è gestita
personalmente dalla famiglia D’Ambra: i genitori e sette degli otto figli. Due
dei più grandi sono i cuochi, gli altri aiutano ogni sera dopo il lavoro o la
scuola. I lavori di ristrutturazione che ha richiesto il nuovo locale sono
stati eseguiti da loro. Si intuisce qui un’attenzione al cliente lontana dai
parametri commerciali. Una volta vidi che appena un commensale, chiaramente un
amico di famiglia, fece il gesto di alzarsi per dare una mano, una delle figlie
lo riprese: “Dai Giorgio, lasciati servire”. Non aveva usato il verbo
nell’accezione funzionale di servire la pietanza nel piatto, ma in quella di
prestare un servizio. Il servizio lo comprende chi comprende la profondità
della persona, e penso che un palato sensibile sia un ottimo strumento per
questo discernimento, perché al di sopra dei valori nutritivi è in grado di
percepire la cultura – culto e coltivazione – e il valore di riunire le persone
attorno a un tavolo. “Dopo la poesia e la musica, il gusto per la bellezza si
esercita negli uomini sul cibo e sul vino”, diceva don Luigi Giussani[3].
Un’esagerazione? La confessione di un gaudente? Ovviamente no. È forse casuale
l’uso del termine gusto per designare la sensibilità artistica?
L’aspetto sociale della
cucina non si esaurisce nel circolo dei commensali cui arrivano le portate, ma
ne comprende anche il punto di partenza. La cucina, per l’appunto. Kamante, un
Kikuyu che Karen Blixen salvò da piccolo e poi trasformò in un cuoco
eccezionale, che sarebbe potuto diventare famoso in Francia, sapeva cucinare
pietanze europee che in un certo senso disprezzava, perché non ne condivideva
il gusto (“talvolta saggiava le pietanze che aveva cucinato, ma sempre con la
faccia sospettosa d’una strega che beva un sorso della sua broda”[4]).
Non è la cosa più normale, ma in fondo non è altro che un caso estremo della
figura frequentissima di chi ama cucinare soprattutto quando si tratta di cucinare
per qualcun altro.
Da quanto detto fin qui è
chiaro che parlare di cibo non vuol dire immediatamente parlare del problema
della fame nel mondo. Come abbiamo visto, uno che è sensibile alle sfumature
del palato può benissimo anche esserlo ai bisogni impellenti di altri uomini.
Le indigenze bussano alle porte della nostra coscienza, ma sarebbe
semplicistico rispondere con una distinzione tra il necessario e il superfluo,
collocando nella seconda casella tutto il gusto, la cultura, l’incontro con
l’altro. Un bambino ha anche bisogno di vedere che sua madre prepara con le
proprie mani il panino per la ricreazione, invece di limitarsi a infilare nello
zaino una merendina preconfezionata, per quanto essa possa piacergli. Anche
questo è pane nostro quotidiano. Sono molti dunque gli strati del bisogno o,
detto in modo positivo: gli strati della nostra condizione incarnata e delle
esigenze poste dalla nostra chiamata a viverla.
Su questa dimensione offre
uno spunto illuminante il filosofo ebreo Martin Buber: “La nostra autentica
missione in questo mondo in cui siamo stati posti non può essere in alcun caso
quella di voltare le spalle alle cose e agli esseri che incontriamo e che
attirano il nostro cuore; al contrario, è proprio quella di entrare in
contatto, attraverso la santificazione del legame che ci unisce a loro, con ciò
che in essi si manifesta come bellezza, sensazione di benessere, godimento”[5].
È necessario vivere l’ascesi, dice, ma questa raggiunge il suo pieno
significato quando ritorniamo alla natura, perché “la gioia che si prova a
contatto con il mondo conduce, se la santifichiamo con tutto il nostro essere,
alla gioia in Dio”.
Non sto forzando il testo
per applicarlo al cibo. Buber raccoglie nelle stesse pagine la spiegazione che
dava un Rabbino di quel passaggio della Genesi in cui Abramo offre ospitalità a
tre angeli, e “mentr’egli stava in piedi presso di loro sotto l’albero, quelli
mangiarono” (Gen 18,8). A quanto pare, nell’originale ebreo la posizione
sottolinea il rapporto spaziale fra chi sta in piedi e chi è seduto, perché il
Rabbino ne evince tutta una rilettura delle relazioni fra uomo e angelo:
“L’uomo sta sopra gli angeli perché conosce l’intenzione che santifica il
pasto, mentre essi non la conoscono. Abramo fece scendere sugli angeli, che non
erano adusi al cibo, l’intenzione attraverso la quale egli era solito
consacrarlo a Dio. Qualsiasi atto naturale, se santificato, conduce a Dio, e la
natura ha bisogno dell’uomo perché compia in lei ciò che nessun angelo può
compiere: santificarla”[6].
Rafael Jiménez Cataño
[1]
Gruppo di musica tradizionale messicana.
[2]
Canzone spagnola, che per l’udito messicano è la quintessenza del gusto
spagnolo, e quindi non-messicano.
[3]
Giussani, Luigi, Un caffè in compagnia,
Rizzoli, Milano 2005, p.170.
[4]
Blixen, Karen, La mia Africa, trad.
it. di L. Drudi Demby, Feltrinelli, Milano 2003, p.37 (orig.: Out of Africa, 1937). Si ricordi che
Karen Blixen è l’autrice de Il pranzo di
Babette, storia portata sullo schermo da Gabriel Axel.
[5]
Buber, Martin, Il cammino dell’uomo
secondo l’insegnamento chassidico, trad. it. di G. Bonola, Edizioni Qiqajon
– Comunità di Bose, Magnano 1990 (orig.: Der
Weg des Menschen nach der chassidischen Lehre, 1948), pp.30-31.
[6]
Ibid., p.32.
La versione originale in
spagnolo di questo articolo (“Los estratos del sustento”) è stata pubblicata
dalla rivista Ixtus (Messico) in un numero monografico su “incarnazione” (n. 55,
2005, pp. 24-27), nella mia rubrica “La bendición de Babel”.
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