Non può vivere bene chi non è in pace con il suo corpo.

Maria Raffaella Dalla Valle
IL DIARIO

venerdì 26 gennaio 2018

Giusi Venuti, La ricerca e il mito dell’eccellenza (Ita)




Giusi Venuti, Curriculum Vitae

Capita, a volte, di non voler affrontare il peso di alcune domande, non perché non si abbia niente da dire, ma perché il dire comporta la ripresa di un problema, la riassunzione di un carico di disagio che per stanchezza, per sfiducia e per un senso di impotenza, si preferisce lasciare in attesa, tra parentesi, sperando in una qualche soluzione.

La domanda intorno al significato del fare ricerca per una giovane donna è per me, in questo momento, una di quelle domande.

Il disagio al quale mi riferisco non riguarda solo la condizione di precarietà economica nella quale tutti i giovani ricercatori, sia uomini che donne, versano agli inizi - che spesso restano tali per anni - della loro carriera, ma in quel più subdolo senso di inconcludenza e di inadeguatezza che si appropria della donna nel momento in cui l’amore per la ricerca si intreccia, senza cedere il passo, con l’amore per la famiglia. La società nella quale viviamo non riesce a pensare per integrazione, ma solo per esclusione. È una società schizofrenica che ci confonde perchè ci da messaggi contraddittori. Da una parte ci viene infatti detto che la ricerca autentica non si fa nel buio di uno studio, ma nel contatto con la realtà nella quale siamo, nell’apertura e nel dialogo con il nostro tempo, d’altra parte quando capita che questo contatto, questa presa di realtà, assuma la forma dell’impegno e della costruzione del nuovo, ecco che si fa avanti il sospetto, per non dire la certezza, dell’insostenibilità delle due scelte. È necessario che la scelta sia solo una. A partire da questo invito, che non ci viene mai rivolto in modo esplicito, ma che si insinua nell’animo e che ci fa avvertire il diventare madre e il voler continuare a fare ricerca come un deplorevole atto di hybris, come un privilegio che non ci possiamo permettere, la contraddizione si amplifica fino a giungere all’assurdo.

Le recenti indagini antropologiche e sociali ci dicono infatti che la nostra è una “società liquida”, vuota cioè di senso, di valori, di prospettive, che i giovani sono sempre più analfabeti di emozioni, che non esistono degli spazi per la condivisione e che bisognerebbe dare maggior respiro alle relazioni, d’altra parte la logica ancora imperante è quella dell’efficienza assoluta in cui migliore non è chi cerca di tenere insieme la competenza professionale con la propria vita di relazioni, ma chi ha fatto una scelta ben precisa, chi si è dato anima e corpo ad un solo progetto.

Inutile nascondere la realtà dei fatti: la famiglia toglie tempo alla ricerca, ma il punto è stabilire di quale tempo si tratti. È il tempo della qualità o della quantità? La domanda può essere oziosa e retorica, oppure no. Supponiamo che ad essere tolta non sia solo la quantità, ma anche la qualità, la domanda è perché le donne devono sentirsi in colpa? Perché devono studiare pensando che ci sarà sempre chi arriverà prima e meglio? Perché non devono essere aiutate e messe nella condizione di fare ciò che vogliono così come possono? Perché non devono essere libere di non scegliere? Non è questo che lo Stato deve assicurare ai cittadini, non è anche questo indice di democrazia? Supponiamo, d’altra parte, che sia solo la quantità di tempo ad essere tolta, ma non la qualità la quale, come tutti sono concordi nel dire, si nutre dell’interesse, della capacità indissolubile di saper fare e di saper essere, allora come la mettiamo? Che significato diamo alla parola saper essere? Chi o che cosa bisogna saper essere? Ciò che il sistema e la logica autoreferenziale vogliono o ciò che ciascuno si assume come un progetto di vita? Le domande sono così stringenti che, come dicevo, la tentazione è quella di non rispondere, di chiudersi in un’alienazione priva di speranza, oppure di continuare ad agire nella contraddizione.

Non vorrei, con questa espressione, essere fraintesa. Agire nella contraddizione non significa rassegnarsi alla passività cui da sempre sembrano essere destinate le donne, ma fare della passività, della ricettività che pure siamo, una nuova logica interpretativa del reale, una logica che sia il controcanto della, ormai implodente, logica attivista e manipolatoria.

In questo senso io non credo che la questione debba essere demandata, esclusivamente, al Comitato per le pari opportunità o all’azione di una corretta politica per le famiglie che pure sono essenziali, ma penso che, in questo delicato momento storico, ciascun essere umano, sia uomo che donna, la debba assumere nella insolubilità con cui si presenta, laddove insolubile non significa che sia necessariamente destinata al fallimento, ma che non la si può risolvere con le sole categorie che dominano il nostro tempo. È necessario, come direbbe Edith Stein, un atto di empatia, un atto di apertura grazie al quale diveniamo capaci di spalancare la mente ed il cuore a tal punto da non sentire più la contraddizione come una colpa da espiare, ma come una modalità di esistenza altra che deve essere accettata, garantita e tutelata nella sua specificità.

Il compito non è dei più semplici, si tratta di una delicata transizione che implica l’accoglimento di un diverso modo di stare nella realtà, un modo in cui la relazione non sia più avvertita come perdita, come diminuzione di realtà, ma come essenza stessa di realtà.

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