Non può vivere bene chi non è in pace con il suo corpo.

Maria Raffaella Dalla Valle
IL DIARIO

domenica 15 novembre 2015

Antropologia della dipendenza: il lavoro e la costituzione dell'essere umano

María Pía Chirinos


Sommario: 1. L’espressione homo faber. 2. L’uomo degli umanesimi: considerazioni preliminari. 3. La dipendenza e la manifestazione dell’unità nell’uomo. 4. Il lavoro come categoria antropologica. 5. Razionalità e lavoro. 6. Il care e la sua presenza nella società tecnocratica.
ABSTRACT: Starting with he modern notion of homo faber in different authors, the article criticizes the economist definition of labor and the figure of animal laborans developed by Hannah Arendt and followed by Dominique Meda. Work here becomes understood without any anthropological dimension. Alternatively, the article offers a notion of work rooted in man, but one that is far from that of the modern humanists, because it starts with the anthropology of dependence, which according to Alasdair MacIntyre, reveals a non-autocratic man, one that is vulnerable and in need of treatment. At the same time, this condition demands all the range of corporeal activity – manual labor –, which is intrinsically human because it manifests reason and liberty. The work is here defined as Aristotelian poiesis, not as an isolated dimension but in connection with theoretical reason and with virtue. Work reveals a practical rationality. Among different works, those manual and also those domestic can restore to a technological society a more human face; because of the care that characterizes them, they enrich interpersonal relations.

3. La dipendenza e la manifestazione dell’unità nell’uomo
Tradizionalmente l’interesse intorno alle definizioni aristoteliche dell’uomo – zoon logikón, zoon politikón – si è indirizzato verso la cosiddetta differenza specifica – nel primo caso la razionalità, e nel secondo la socialità –, nonostante l’innegabile presenza del genere, cioè dell’animalità. Così facendo si è però lasciato al margine un fatto decisivo: «colui che parla è un essere vivo e non una pianta, ma proprio un animale, il quale ha più somiglianze che dissomiglianze con alcuni animali non umani ».19

Questa animalità sembra essere stata «la pietra di scandalo» che impedì di ammettere sia alla filosofia classica, sia a quella contemporanea, che ci fosse una corporalità con note propriamente umane, vale a dire, atti corporei liberi e razionali. Il motivo lo abbiamo già detto, ma lo ripetiamo : fin dal tempo dei Greci, l’ideale umanista si identificava con l’autarchia, con l’autonomia, con l’autosufficienza. Parlare di limitazione o di dipendenza, ancor di più se si trattava di una limitazione corporale, era far riferimento agli schiavi e ai servi, ad una ragione immatura o non ancora maggiorenne o, purtroppo ancor oggi si pensa così, a vite in ultima analisi prive di senso. 
Tuttavia, un’accettazione corretta dell’animalità non significa una sottovalutazione. «Gli esseri umani – scrive MacIntyre – sono vulnerabili rispetto ad una grande quantità di afflizioni varie […]. È molto frequente che l’individuo dipenda interamente dagli altri per la sua sopravvivenza, non diciamo per la sua fioritura». 20 Anzi, come ha pure indicato Martha Nussbaum, la vita umana è specialmente vulnerabile e dipendente «dai beni esterni» fino al punto di considerare questi beni come «parte della vita eccellente». 21 Per tale motivo, l’assenza di beni materiali o esterni toglie alla persona la possibilità di vivere bene, o di godere di quel benessere necessario per sviluppare le virtù.
A mio parere, Fernando Inciarte offre una spiegazione abbastanza convincente del rapporto corpo-anima. Il suo punto di partenza è un dato di esperienza molto semplice: ilfatto che in tutte le scale della vita ci siano alcune caratteristiche comuni. 22 
Un esempio: alimentarsi implica uno scambio con l’ambiente e richiede organi speciali e differenziati. Nelle piante, sono le radici ; in alcuni animali, il muso ; e nell’uomo, la bocca. Un altro esempio è il movimento : i piedi, le zampe, le ali e le pinne sono organi differenti che rendono possibile all’uomo, ai quadrupedi, agli uccelli ed ai pesci di spostarsi sulla terra, in aria o nell’acqua. Gli organi e le funzioni, o anche se si vuole, il corpo e l’anima, costituiscono tutto l’essere vivente. Gli organi rendono nota la possibilità o la potenzialità della dimensione corporea. Le funzioni fanno riferimento all’ambito dell’anima, cioè all’ambito dell’attualità.

Più specificamente, il mangiare rivela una funzione universale perché presente nelle piante, negli animali e negli esseri umani. Questo tipo di universalità viene denominata da Aristotele l’universale fisico, 23 opposto a quello logico, che sarebbe l’astratto. Ma questa universalità è univoca? Cioè, dobbiamo pensare che l’atto del mangiare umano si svolga come quello dell’animale? San Tommaso, nel commento al De anima, scrive che «nell’uomo, la stessa anima sensibile (ipsa anima sensibilis) è razionale». 24 In altre parole, quando l’uomo si alimenta, lo fa con delle risposte che non sono sempre le stesse e che implicano la ragione, vale a dire conoscenza ed elezione, o l’intervento dell’intelligenza e della libertà. L’uomo impara a fabbricare lance e armi per uccidere gli animali; scopre che può coltivare ed assicurarsi cibo ciclicamente ; è capace di conservare ed elaborare gli alimenti in modi differenti. La casa è un altro fenomeno exclusivamente umano: l’uomo trasforma il suo ambiente e lo personalizza. Non si limita ad occupare una caverna per difendersi dalle condizioni climatiche : la decora, la adatta e perfino la lascia in cerca di altre possibilità migliori. Tutto questo ci permette di ribadire che, nell’uomo, la maggior parte degli atti corporei – non tutti perché ci sono quelli strettamente metabolici –, mostrano una natura diversa. Questo indica che lo stato puro della natura umana non esiste. La nostra natura è sempre permeata dalla ragione e dalla libertà : pertanto, tutti gli atti naturali sono sempre anche culturali. La cultura non è esclusiva della razionalità : compare anche nell’essere umano in quanto corporeo. Non c’è opposizione o esclusione fra vulnerabilità e dipendenza del corpo, e razionalità e cultura. La dipendenza non significa assenza di libertà e neanche di creatività. L’essere umano mostra risposte varie e imprevedibili di fronte alla dipendenza, anche quando quella dipendenza si riferisce ai beni esterni 25 o ad altri esseri umani. 26 Tutte queste risposte sono le espressioni della cultura nella sua varietà e ricchezza e vale la pena studiarle.
(...)

6. Il care e la sua presenza nella società tecnocrática
Oggi nessuno nega la necessità di un atteggiamento più umano nelle stesse relazioni umane. Una manifestazione evidente che questa verità è condivisa da molti, la si può constatare verificando le risposte che provocano fenomeni come lo Tsunami, il maremoto accaduto nel Sudest Asiatico o l’uragano Katrina negli Stati Uniti, o anche i movimenti solidali verso popolazioni meno sviluppate economicamente. MacIntyre intravede in queste reazioni la presenza della virtù della misericordia, assente nell’etica aristotelica del magnanimo. 50 Di fronte a situazioni urgenti ed estreme, che tante volte sono segno della vulnerabilità umana, la misericordia ci spinge ad agire in favore degli altri e ad aiutarli. Nessuno si arresta o si ferma davanti a digressioni teoriche sul valore di tutte quelle vite. Quando appaiono la necessità e la malattia, emerge anche tutta la dignità dell’essere umano e la vera solidarietà si manifesta spesso nella forma di cura, di care. Nessuno si illuda: gli aiuti umanitari più
preziosi non sono gli aerei pieni di materiali, ma le persone che si recano sul posto del bisogno e prestano le cure che soltanto le persone (e non le macchine) possono dare. Alla proposta di MacIntyre, tuttavia, mi permetto di aggiungere qualche suggerimento. A volte questi movimenti solidali – certamente non tutti – possono rivelare una necessità nascosta che si traduce nel tranquillizzare la coscienza attraverso sforzi straordinari, ma spesso discontinui. È una solidarietà certamente necessaria, ma che si dirige a risolvere situazioni di emergenza fuori norma. 51 Al contrario, la sfida della nostra società postmoderna – e, pertanto, di un nuovo umanesimo – consiste nel conferire il suo valore ad una dimensione ancora più umile, più nascosta, e meno spettacolare, «che non fa notizia». La solidarietà ha monopolizzato l’attenzione perché spesso rivela l’infra-umano.
Tuttavia, vale la pena di riflettere su quelle situazioni troppo umane, quelle che agli occhi della modernità appaiono sempre più come qualcosa di debole, di inferiore, di misero e perfino di arcaico. Ci vuole coraggio per ammettere che a questo livello della vita quotidiana si è perso il senso dell’umano, vale a dire, che servono delle azioni e dei lavori che offrano di nuovo all’uomo i beni necessari alla sua condizione corporale e dipendente, non quando ha bisogno di cure straordinarie, ma soprattutto nella vita di ogni giorno.
Come ha scritto Pierpaolo Donati, «l’umanizzazione è il prodotto di una specifica “relazione di cura” di cui sono capaci solo gli esseri umani. È questa relazione che distingue l’umano quando chi agisce lo fa come tale. Prendersi cura non solo dell’altro come persona, ma anche delle cose e degli altri esseri viventi, è solo dell’Uomo, quando si comporta come tale ». 52 Questo sarebbe il compito del cosiddetto settore del care, dei servizi, quello che include tutta una gamma di mestieri anche manuali, che si identificano con il lavoro in senso arendtiano. In effetti, sono attività che rivelano la dipendenza nella vita quotidiana, che non lasciano niente dietro di sé, ma che non per questo vanno considerate prive della libertà o della razionalità. La dipendenza corporale è – come abbiamo visto – una dimensione positiva e umana. Richiede quindi anche una risposta umana – prendersi cura –, il cui valore non è quasi riconosciuto nella nostra società tecnocratica ed efficiente.
Leonardo Polo, con un’espressione audace, afferma che «la famiglia è possibile per la mano».53 Alejandro Llano denomina tutto l’insieme dei rapporti familiari e dei lavori che si svolgono in famiglia, «la prima solidarietà». 54 In famiglia si imparano le virtù della dipendenza riconosciuta, descritte da MacIntyre come condizione indispensabile della vita pubblica ed indipendente del cittadino. 55 La famiglia secondo Pierpaolo Donati sarebbe il punto di unione con la pólis, ponte tra la vita privata e la pubblica. 56 La famiglia è la parte principale e fondante della società. Concretamente, e in contrasto con la ragione dominante della modernità, il lavoro manuale che soddisfa le necessità quotidiane e si svolge come mestiere o craft, rappresenta un atteggiamento più umile e realistico, più rispettoso e forse anche più razionale verso la natura. Più razionale perché riconosce il suo ordine e il suo ritmo, e rilancia così una valutazione non meccanicistica né astratta della realtà umana e anche della natura. In contrasto con l’individualismo della filosofia politica, questa nozione di lavoro si apre ad una solidarietà che si svolge nella quotidianità, che richiede esperienza, conoscenza, spirito di servizio e che si impara principalmente nell’ambito familiare.
MacIntyre ribadisce che Aristotele «ha capito molto bene l’importanza di determinate forme di esperienza per la pratica razionale (ha scritto: «è possibile vedere che coloro che possiedono l’esperienza sono più efficaci di quelli che sono provvisti di ragione, ma non hanno l’esperienza»: Metaf. A 981 – 14- 15)». Tuttavia, non tenne conto dell’esperienza «di coloro che hanno sofferto le afflizioni e la dipendenza: le donne, gli schiavi e i servi, che hanno lavorato nei cantieri di produzione, così come i coltivatori, i pescatori e gli operai»,57 e ciò ha privato l’uomo antico e moderno di una ricca fonte di conoscenza per poter diventare «esperto in umanità ».

In effetti, con parole di Alejandro Llano, «chi domina un mestiere ha una specie di empatia con la realtà su cui lavora, così che può inmediatamente distinguere l’essenziale dall’accidentale, ed è in grado di individuare rápidamente il quid della questione, quello che gli Anglo-Sassoni denominano the point».58 Questa capacità di discernimento assomiglia molto ad una conoscenza pratica e allo stesso tempo sapienziale, ad un’occupazione contemplativa, 59 che scopre l’essere umano in tutta la sua profondità attraverso il contatto con quella materia, o quel corpo vivo, che sia i greci, sia i moderni, hanno preferito dimenticare.

Dunque, il lavoro nel senso arendtiano, cioè il lavoro che rende possibile la vita umana vista dal prisma delle sue necessità, della sua fragilità e dipendenza, non sembra un’attività priva di ragione, di libertà, di creatività o di cultura. Anzi, questo lavoro di cura recupera una chiave ermeneutica dimenticata dalla modernità, quella dell’umanizzazione dell’uomo. Chiave ermeneutica perché ci rende possibile interpretare più facilmente, a partire dalle circostanze più ordinarie della vita e della cultura odierna, la nostra condizione di creature, e conseguentemente anche la nostra dipendenza dal Creatore. «La forma più perfetta della relazione di cura si ha quando essa si traduce in una relazione di amore nella quale la dipendenza dell’Uomo dall’Uomo viene inscritta in una relazione di ordine superiore – quella con Dio – che ne elimina i condizionamenti negativi ed esalta le libertà autentiche dei soggetti in relazione».60
Tutto questo ci porta ad una nozione di umanesimo, o di cultura antropocentrica, dove l’uomo e la donna possono perfettamente occupare il posto principale, senza però le prerogative straordinarie che la filosofia ha preteso per loro fino ai nostri giorni. Si tratta di proporre un’umanità più umana, e una centralità reale grazie alla quale l’uomo smetta di essere un superuomo, per mostrare una vulnerabilità che lo trasforma in un essere capace di ricevere e di donare nelle circostanze quotidiane. Per questo, la rivalutazione dei lavori manuali, con le loro virtualità conoscitive ed etiche, e con tutte le lorovariabili, anche con quella volta a soddisfare le necessità vitali, gioca una carta fondamentale per spiegare in modo convincente questo nuovo umanesimo.
18 A. MacIntyre, Animali razionali dipendenti: perché gli uomini hanno bisogno delle virtù, cit., p. 22. È vera l’osservazione che mi ha fatto presente il Prof. Stephen L. Brock, riguardo al fatto che le tesi di MacIntyre sul magnanimo di Aristotele risultano alquanto esagerate e negative: ciò nonostante è anchevero che MacIntyre ammette in questa citazione che in Aristotele possono aversi le tesi contrarie. In altre parole, sebbene l’umanesimo aristotélico sia stato qualificato come aristocratico e sia indubbia la sua svalutazione rispetto alle attività corporee, c’è anche da dire che esso ammette che la felicità umana s ottiene con l’ausilio di beni esterni e di amici e parenti (cfr. Aristotele, Etica nicomachea, tr. it. a cura di C. Mazzarelli, Bompiani, Milano 2000, 1099 a31-1099 b6).
19 A. Llano, Humanismo cívico, cit., p. 175.
20 A. MacIntyre, Animali razionali dipendenti : perché gli uomini hanno bisogno delle virtù, cit., p. 15.
21 M. Nussbaum, La fragilità del bene: fortuna ed etica nella tragedia e nella filosofia greca, Il Mulino, Bologna 1996, pp. 33-34.
22 Cfr. F. Inciarte, "Das Leib-Seele-Problem aus aristotelischen Licht", pro manuscrito, p. 3. La datazione di questo manoscritto non è in mio possesso. Ciò nonostante, si sa che Inciarte pubblicò tre articoli in relazione con questo studio, il primo dei quali s’intitola "Die Seele aus begriffsanalytischer
Sicht", in H. Seebab (editore), «Entstehung des Lebens. Studium generale Wintersemester 1979/1980», Aschendorf, Münster 1979, pp. 47-70. 
23 Cfr. Aristotele, Metafisica, tr. it. di G. Reale, Bompiani, Milano 2000, vii, 8, 1033 b 32.
24 Tommaso d’Aquino, In Aristotelis librum de Anima Commentarium, Marietti, Torino 1959, art. 11, ad 19.
25 Cfr. J. Ballesteros, Ecologismo Personalista, Tecnos, Madrid 1995, pp. 34 ss.
26 Cfr. A. MacIntyre, Animali razionali dipendenti: perché gli uomini hanno bisogno delle virtù, cit., cap. 8.
27 D. Méda, Società senza lavoro. Per una filosofia dell’occupazione, cit., p. 233.
46 L. Polo, Tener y dar, in Aa.Vv., Estudios sobre la Enc. Laborem Exercens, bac, Madrid 1987, p. 220.
47 R. Spaemann, Felicidad y benevolencia, Rialp, Madrid 1991, p. 254.
48 Compresa « l’attività filosofica » come spiegava F. Inciarte : questo lo ha anche esposto in maniera corretta L. Flamarique in un articolo dedicato a questo filosofo: cfr. L. Flamarique, Fernando Inciarte, de oficio filósofo, « Nuestro Tiempo », 573 (marzo 2000), pp. 103-109.
49 Cfr. A. Llano, El diablo es conservador, eunsa, Pamplona 2001, p. 196.
50 Cfr. A. MacIntyre, Animali razionali dipendenti : perché gli uomini hanno bisogno delle virtù, cit., cap. 10. Si veda, Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, cit., ii-ii, qq. 30 e 31.
51 Viroli e Bobbio, pensatori laicisti, mantengono un atteggiamento di perplessità davanti alle forme di solidarietà o volontariato che denominano precisamente “laiciste”, perché prive di radici religiose e in quanto non risolvono a fondo i problemi umani: cfr. Dialogo intorno alla Repubblica, Laterza, Roma-Bari 2001, cap. 6.
52 P. Donati, Il problema dell’umanizzazione nell’era della globalizzazione tecnologica, in P.
53 L. Polo, Quién es el hombre, Rialp, Madrid 1991, p. 72.
54 Cfr. A. Llano, La nueva sensibilidad, Espasa-Calpe, Madrid 1988 e idem, El diablo es conservador, cit., cap. 7: La familia ante la nueva sensibilidad.
55 Cfr. A. MacIntyre, Animali razionali dipendenti : perché gli uomini hanno bisogno delle virtù, cit., cap. 10.
56 P. Donati, Famiglia, in E. Scabini, P. Donati (a cura di), Nuovo lessico familiare, Vita e Pensiero, Milano 1995, p. 29.
57 A. MacIntyre, Animali razionali dipendenti : perché gli uomini hanno bisogno delle virtù, cit., p. 21.
58 A. Llano, El diablo es conservador, cit., p. 198.
59 Anche se dalla filosofia non ci sono state formulazioni su questa linea, rinvio ad una fonte extrafilosofica, che mi è servita per ispirarmi per questa tesi: gli insegnamenti di san Josemaría Escrivá sulla santificazione del lavoro professionale e delle circostanze della vita quotidiana. « Noi cristiani » – scrisse in una sua opera – «riconosciamo Dio non solo nello spettacolo della natura, ma anche nell’esperienza del nostro lavoro, del nostro “sforzo” e per questo dall’esercizio del nostro sapere più astratto fino alle abilità artigianali, tutto può e deve ricondurre a Dio» ( J. Escrivá, È Gesù che passa, Ares, Milano 20037, n. 48).
60 P. Donati, Il problema dell’umanizzazione nell’era della globalizzazione tecnologica, cit., p. 59. Qui Donati cita Borghello.

Per leggere tutto l'articolo:
Antropologia della dipendenza: il lavoro e la costituzione dell'essere umano
Chirinos, M. (2007). Antropologia della dipendenza: il lavoro e la costituzione dell'essere
umano. Acta Philosophica: revista internazionale di filosofia, 16 (2), 195-212. 

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