Non può vivere bene chi non è in pace con il suo corpo.

Maria Raffaella Dalla Valle
IL DIARIO

domenica 13 novembre 2016

Le virtù, l'unità della vita umana e il concetto di tradizione. Da Dopo la virtù di Alasdair MacIntyre, cap.XV (Ita)


Sto aspettando l'autobus, e il giovane che aspetta accanto a me dice all'improvviso: "Il nome della comune anatra selvatica è ‘Histrionicus histrionicus histrionicus'". Non ci sono problemi quanto al significato della frase che ha pronunciato; il problema è come rispondere alla domanda: che cosa intendeva fare pronunciandola? Supponiamo che egli abbia appena pronunciato frasi del genere a intervalli casuali: questa potrebbe essere una forma di pazzia. Renderemmo intelligibile la sua azione se risultasse vera una delle ipotesi seguenti. Mi ha scambiato per qualcuno che ieri gli si è avvicinato in biblioteca e gli ha chiesto: "Lei conosce, per caso, il nome latino della comune anatra selvatica?". Oppure è appena uscito da una seduta con il suo analista che lo ha esortato a vincere la sua timidezza parlando con estranei. "Ma cosa dirò?", "Oh, quello che le pare". Oppure è una spia sovietica che sta aspettando per un appuntamento combinato in precedenza e pronuncia la parola chiave mal scelta che deve consentire al suo contatto di identificarlo.

Questo esempio può essere considerato il nucleo della teoria etica narrativa. Si trova in Dopo la virtù, cap. 15 dopo che si è spiegata l'atomizzazione dell'io.

Consiglio di leggere l'estratto e l'intero capitolo XV: Le virtù, l'unità della vita umana e il concetto di tradizione.

Non è quindi improprio cominciare con l'esaminare alcune delle nostre intuizioni concettuali, per lo più date per scontate ma palesemente corrette, circa le azioni e la soggettività umane, per dimostrare quanto sia naturale pensare all'io in una forma narrativa. 
È un luogo comune concettuale, sia per i filosofi sia per i profani, che uno stesso segmento di comportamento umano possa essere descritto correttamente in molti modi diversi. Alla domanda: "Che cosa sta facendo il tale?" si può rispondere con pari verità e pertinenza: "Sta scavando", "Sta facendo del giardinaggio", "Sta facendo esercizio fisico", "Si sta preparando per l'inverno", "Sta facendo un piacere a sua moglie".
Alcune di queste risposte descriveranno le intenzioni del soggetto agente, altre le conseguenze preterintenzionali delle sue azioni di alcune delle quali egli può essere consapevole e di altre no. È importante osservare immediatamente che qualsiasi risposta alle domande su come dobbiamo intendere o spiegare un determinato segmento di comportamento presupporrà una qualche risposta preliminare alla domanda su come siano collegate fra loro queste diverse risposte corrette alla domanda: "Che cosa sta facendo il tale?" Infatti, se la sua intenzione primaria è di mettere in ordine il giardino prima dell'inverno, e solo incidentalmente nel fare questo fa anche esercizio fisico e un piacere a sua moglie, abbiamo un tipo di comportamento da spiegare; ma se la sua intenzione primaria è di compiacere la moglie facendo esercizio fisico, abbiamo da spiegare un tipo di comportamento del tutto diverso, e dovremo ricercarne la comprensione e la spiegazione in una direzione diversa. 
Si potrebbe obiettare che se non ho compiuto un'azione intelligibile, ho pur sempre compiuto un'azione o una serie di azioni. Ma a ciò voglio rispondere che il concetto di azione intelligibile è più fondamentale di quello di azione in quanto tale. 
Le azioni inintelligibili sono candidati respinti al ruolo di azioni intellegibili; e ammucchiare insieme le azioni inintelligibili e quelle intelligibili in un unica classe di azioni, per poi caratterizzare l'azione in base a ciò che gli elementi di entrambi gli insiemi hanno in comune, significa commettere l'errore di ignorare questa circostanza. Significa anche trascurare l'importanza essenziale del concetto di intelligibilità. 
Tale importanza è strettamente collegata con il fatto che la distinzione più fondamentale fra tutte quelle contenute nel nostro discorso e nella nostra prassi in questo campo è la distinzione fra gli esseri umani e gli altri esseri. Gli esseri umani, diversamente dagli altri, possono essere ritenuti responsabili di ciò di cui sono autori. Nel caso paradigmatico, identificare un evento come un'azione vuol dire sussumerlo sotto un tipo di descrizione che ci consente di considerare quell'evento come scaturente in modo intelligibile dalle intenzioni, dai moventi, dalle passioni e dai propositi di un soggetto umano. Vuol dire quindi concepire un'azione come qualcosa di cui si è responsabili, riguardo a cui è sempre legittimo chiedere al soggetto una spiegazione adeguata. 
Quando un evento è palesemente l'azione prodotta dalle intenzioni di un soggetto umano, e tuttavia non siamo in grado di identificarla in questo modo, rimaniamo sconcertati sia intellettualmente sia praticamente. Non sappiamo come reagire; non sappiamo come spiegare l'evento, e neppure come caratterizzarlo minimamente quale azione intelligibile; la nostra distinzione fra ciò di cui l'uomo è responsabile e ciò che è meramente naturale sembra essersi sgretolata. E questo genere di sconcerto si manifesta effettivamente in parecchie e svariate situazioni: quando ci accostiamo a culture estranee o persino a strutture sociali estranee all'interno della nostra stessa cultura, nei nostri incontri con certi tipi pazienti nevrotici o psicotici (è proprio l'inintelligibilità delle azioni di tali "pazienti" che induce a considerarli pazienti: le azioni inintelligibili tanto al soggetto quanto a chiunque altro sono intese, giusta- mente, come una forma di sofferenza), ma anche in situazioni quotidiane. Consideriamo un esempio. 
Sto aspettando l'autobus, e il giovane che aspetta accanto a me dice all'improvviso: "Il nome della comune anatra selvatica è ‘Histrionicus histrionicus histrionicus'". Non ci sono problemi quanto al significato della frase che ha pronunciato; il problema è come rispondere alla domanda: che cosa intendeva fare pronunciandola? Supponiamo che egli abbia appena pronunciato frasi del genere a intervalli casuali: questa potrebbe essere una forma di pazzia. Renderemmo intelligibile la sua azione se risultasse vera una delle ipotesi seguenti. Mi ha scambiato per qualcuno che ieri gli si è avvicinato in biblioteca e gli ha chiesto: "Lei conosce, per caso, il nome latino della comune anatra selvatica?". Oppure è appena uscito da una seduta con il suo analista che lo ha esortato a vincere la sua timidezza parlando con estranei. "Ma cosa dirò?", "Oh, quello che le pare". Oppure è una spia sovietica che sta aspettando per un appuntamento combinato in precedenza e pronuncia la parola chiave mal scelta che deve consentire al suo contatto di identificarlo. In ciascuno di questi casi, l'atto enunciativo diventa intelligibile perché trova il suo posto in una narrazione. 
Si può ribattere che non è necessario fornire una narrazione per rendere intelligibile un atto del genere. Tutto ciò che si richiede è che siamo in grado di identificare il tipo di atto linguistico pertinente (ad esempio: "Stava rispondendo a una domanda"), o un qualche scopo a cui servisse la sua enunciazione (ad esempio: "Stava cercando di attirare la tua attenzione"). Ma anche gli atti linguistici e gli scopi possono essere intelligibili o inintelligibili. Supponiamo che l'uomo alla fermata dell'autobus spieghi la sua azione dicendo: "Stavo rispondendo a una domanda". Io obietto: "Ma non le ho mai rivolto nessuna domanda di cui quella frase potesse essere la risposta". Lui dice: "Oh, questo lo so". Di nuovo, la sua azione diventa inintelligibile. E si potrebbe costruire facilmente un esempio parallelo per dimostrare che il semplice fatto che un'azione serva a uno scopo riconoscibile non basta a renderla intelligibile. Sia gli scopi sia gli atti linguistici richiedono un contesto. 
Il tipo più familiare di contesto in cui e in riferimento a cui gli atti linguistici e gli scopi diventano intelligibili è la conversazione. Essa è un tratto così universalmente pervasivo del mondo umano, che tende a sfuggire all'attenzione filosofica. Tuttavia, se si eliminasse la conversazione dalla vita umana, che cosa resterebbe? Consideriamo dunque che cosa comporta seguire una conversazione e trovarla intelligibile o inintelligibile. (Trovare una conversazione intelligibile non significa necessariamente capirla; infatti una conversazione che sento di sfuggita può essere intelligibile, ma io posso non riuscire a capirla). Se ascolto una conversazione fra altre due persone, la mia capacità di seguire il filo del discorso implicherà la capacità di ricondurlo a un elemento di un insieme di de- scrizioni in cui sono espressi il grado e il genere di coerenza della conversazione: "una lite incoerente da ubriachi", "un serio dissenso intellettuale", "una tragica incomprensione reciproca", "un fraintendimento comico, addirittura farsesco, delle rispettive motivazioni", "un acuto scambio di vedute", "una lotta per il dominio reciproco", "un volgare scambio di pettegolezzi". 
L'uso di termini come "tragico", "comico", "farsesco", non è marginale per tali valutazioni. Assegniamo le conversazioni a vari generi, proprio come facciamo per le narrazioni letterarie. E in effetti una conversazione è un'opera drammatica, sia pure molto breve, in cui i partecipanti sono non solo gli attori, ma anche i coautori, che elaborano in accordo o in disaccordo reciproco la forma della loro produzione. Poiché non è solo che le conversazioni appartengono a generi nello stesso modo in cui vi appartengono le opere teatrali e i romanzi, ma esse hanno inizi, parti centrali e conclusioni esattamente come le opere letterarie. Contengono ribaltamenti e riconoscimenti; procedono verso un acme e poi si allontanano da esso. All'interno di una conversazione più lunga possono esserci digressioni e intrecci secondari, e addirittura digressioni all'interno delle digressioni e intrecci secondari all'interno degli intrecci secondari. 
Ma se questo vale per le conversazioni, vale anche, mutatis mutandis, per le battaglie, le partite a scacchi, il corteggiamento, le famiglie riunite per la cena, gli uomini d'affari che intavolano trattative per un contratto, cioè per le transazioni umane in generale. La conversazione infatti, se in- tesa in senso sufficientemente ampio, è la forma della transazione umana in generale. Il comportamento della conversazione non è una specie o un aspetto particolare del comportamento umano, anche se le forme dell'uso linguistico e della vita umana sono tali che le azioni degli altri parlano per loro tanto quanto le loro parole. Poiché questo è possibile solo perché si tratta delle azioni di esseri dotati dell'uso della parola. 
Sto presentando dunque sia le conversazioni in particolare sia le azioni umane in generale come narrazioni messe in atto. La narrazione non è opera di poeti, drammaturghi e romanzieri che riflettono su avvenimenti che non possedevano alcun ordine narrativo prima che ne fosse stato loro imposto uno dal cantore o dallo scrittore; la forma narrativa non è né tra- vestimento né ornamento. Barbara Hardy, nel sostenere la stessa tesi, ha scritto che "noi sogniamo in forme narrative, fantastichiamo in forme narrative, ricordiamo, presagiamo, speriamo, disperiamo, crediamo, dubitiamo, pianifichiamo, correggiamo, critichiamo, costruiamo, chiacchieriamo, impariamo, odiamo e amiamo attraverso forme narrative" (Hardy, 1968, p. 5).
 All'inizio di questo capitolo ho sostenuto che nell'identificazione e nella comprensione riuscite di ciò che un altro sta facendo procediamo sempre nel senso di collocare un episodio particolare entro un insieme di narrazioni storiche, che riguardano tanto gli individui coinvolti quanto i contesti in cui essi agiscono e patiscono. Adesso comincia a diventare chiaro che se rendiamo intelligibili le azioni altrui in questo modo, è perché l'azione stessa ha un carattere fondamentalmente storico. È perché noi tutti viviamo delle narrazioni e intendiamo la nostra vita in base alle narrazioni che viviamo, che la forma della narrazione è adatta per comprendere le azioni degli altri. Fuorché nell'invenzione letteraria, le storie vengono vissute prima di essere raccontate. 
Naturalmente questo è stato negato in recenti discussioni. Louis O. Mink, polemizzando con la tesi di Barbara Hardy, ha affermato: "Le storie non vengono vissute, ma raccontate. La vita non ha inizi, parti centrali o conclusioni; ci sono incontri, ma l'avvio di un fatto appartiene alla storia che raccontiamo in seguito a noi stessi, e ci sono separazioni, ma le separazioni definitive si trovano soltanto nella storia. Ci sono speranze, progetti, battaglie e idee, ma solo nelle storie retrospettive esistono speranze deluse, progetti falliti, battaglie decisive e idee embrionali. Solo nella storia è l'America quella che Colombo scopre, e solo nella storia il regno è perduto perché manca un chiodo" (Mink, 1970, pp. 557-8).Che dire di fronte a queste asserzioni? Dobbiamo certamente concedere che solo retrospettivamente le speranze possono essere caratterizzate come deluse, le battaglie come decisive, e così via. Ma le caratterizziamo in questo modo nella vita tanto quanto nell'arte. E a chi affermasse che nella vita non ci sono conclusioni, o che le separazioni definitive avvengono solo nelle storie, si sarebbe tentati di rispondere: "Ma non hai mai sentito parlare della morte?". 


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