L'amore di Gesù per la sua e la nostra umanità. Ci dice "guardatemi, toccatemi"...
Dà dignità a tutti i sensi: al guardare, al toccare, al mangiare...
Una porzione di pesce arrostito: meditazione di don Andrea Mardegan
I cinque
sensi
Eterna verità e vera carità e cara eternità!
Stimolato a rientrare in me stesso, sotto la tua
guida, entrai nell'intimità del mio cuore, e lo potei fare perché tu ti sei fatto
mio aiuto (cfr. Sal 29, 11). Entrai e vidi con l'occhio dell'anima mia,
qualunque esso potesse essere, una luce inalterabile sopra il mio stesso
sguardo interiore e sopra la mia intelligenza. Non era una luce terrena e
visibile che splende dinanzi allo sguardo di ogni uomo. Direi anzi ancora poco
se dicessi che era solo una luce più forte di quella comune, o anche tanto
intensa da penetrare ogni cosa. Era un'altra luce, assai diversa da tutte le
luci del mondo creato. Non stava al di sopra della mia intelligenza quasi come
l'olio che galleggia sull'acqua, né come il cielo che si stende sopra la terra,
ma una luce superiore. Era la luce che mi ha creato. E se mi trovavo sotto di
essa, era perché ero stato creato da essa. Chi conosce la verità conosce questa
luce.
O eterna verità e vera carità e cara eternità! Tu sei
il mio Dio, a te sospiro giorno e notte. Appena ti conobbi mi hai sollevato in
alto perché vedessi quanto era da vedere e ciò che da solo non sarei mai stato
in grado di vedere. Hai abbagliato la debolezza della mia vista, splendendo
potentemente dentro di me. Tremai di amore e di terrore. Mi ritrovai lontano
come in una terra straniera, dove mi parve di udire la tua voce dall'alto che
diceva: «Io sono il cibo dei forti, cresci e mi avrai. Tu non trasformerai me
in te, come il cibo del corpo, ma sarai tu ad essere trasformato in me».
Cercavo il modo di procurarmi la forza sufficiente
per godere di te, e non la trovavo, finché non ebbi abbracciato il «Mediatore
fra Dio e gli uomini, l'Uomo Cristo Gesù» (1 Tm 2, 5), «che è sopra ogni cosa,
Dio benedetto nei secoli» (Rm 9, 5). Egli mi chiamò e disse: «Io sono la via,
la verità e la vita» (Gv 14, 6); e unì quel cibo, che io non ero capace di
prendere, al mio essere, poiché «il Verbo si fece carne» (Gv 1, 14).
Così la tua Sapienza, per mezzo della quale hai
creato ogni cosa, si rendeva alimento della nostra debolezza da bambini.
Tardi ti ho amato, bellezza tanto antica e tanto
nuova, tardi ti ho amato. Ed ecco che tu stavi dentro di me e io ero fuori e là
ti cercavo. E io, brutto, mi avventavo sulle cose belle da te create. Eri con
me ed io non ero con te. Mi tenevano lontano da te quelle creature, che, se non
fossero in te, neppure esisterebbero. Mi hai chiamato, hai gridato, hai
infranto la mia sordità. Mi hai abbagliato, mi hai folgorato, e hai finalmente
guarito la mia cecità. Hai alitato su di me il tuo profumo ed io l'ho
respirato, e ora anelo a te. Ti ho gustato e ora ho fame e sete di te. Mi hai
toccato e ora ardo dal desiderio di conseguire la tua pace.
Dalle «Confessioni» di sant'Agostino, vescovo.
(Lib. 7, 10, 18; 10, 27; CSEL 33, 157-163. 255)
Tuttavia, un’accettazione corretta dell’animalità e della corporeità non significa una sottovalutazione. “Gli esseri umani – scrive Alasdair MacIntyre – sono vulnerabili rispetto ad una grande quantità di afflizioni varie […]. È molto frequente che l’individuo dipenda interamente dagli altri per la sua sopravvivenza, non diciamo per la sua fioritura”.12 Anche Martha Nussbaum ha ribadito che la vita umana è specialmente vulnerabile e dipendente “dai beni esterni” fino al punto di considerare questi beni come “parte della vita eccellente”.13 Per tale motivo, l’assenza di beni materiali preclude all’uomo la possibilità di vivere bene e di godere di quel benessere necessario per acquisire le virtù. Molti funzioni o atti naturali nell’uomo che si dirigono ai beni materiali, come il bere o il mangiare, meritano per ciò una speciale attenzione. L’uomo, per esempio, ha una maniera di cibarsi totalmente propria. Le sue abitudini sono molto diverse e mutevoli, non solo grazie a condizionamenti geografici o climatici, ma anche a quelli culturali, da lui stesso proposti. Per esempio, nel corso della storia, l’uomo ha mangiato con la mano, con le posate più o meno sofisticate e sulla base di tradizioni e di tecniche tramandate di generazione in generazione. In questo modo, ha dato origini a una ricchezza culturale nel campo alimentare che oggi chiamiamo gastronomia. Questo sta a significare che l’uomo,
anche nelle sue necessità più corporale, non prescinde dalla sua intelligenza e, grazie ad essa, crea un’arte e una scienza per fronteggiare le sue necessità vitali.
Da Maria Pia Chirinos, Il lavoro come categoria
antropologica.
Prima di escogitare la straordinaria invenzione della
scrittura, grazie alla quale è possibile fissare le parole, alleggerendo la
memoria e rendendo quelle stesse parole immutabili, e capaci di superare la
morte di chi le scrive, gli umani erano esseri parlanti. Gran parte della
comunicazione e dell'istruzione avveniva tramite la parola e l'ascolto, quindi
sempre nella circostanza in cui chi parla e chi ode sono simultaneamente
presenti. La scrittura, invece, permette di apprendere da soli, «a distanza» da
colui che parla: posso leggere un romanzo o un libro di scienze senza
l'effettiva presenza di chi racconta o istruisce, e ciò per mezzo di un testo,
sia esso su carta o sullo schermo di un computer.
La scrittura ha indubbiamente permesso una maggiore
fissazione e diffusione del sapere, anche se ha ridotto la ricchezza
dell'insegnamento e dell'apprendimento «faccia a faccia». Non solo: la
rivoluzione comunicativa apportata dalla scrittura ha pure modificato la
gerarchia dei «sensi» impegnati nella comunicazione e nell'apprendimento.
Infatti, mentre prima dell'avvento della scrittura il senso più importante era
l'udito che riceveva le parole, rendendo così l'attenzione «tutta orecchi», la
scrittura ha incoronato la vista regina dei sensi, richiedendo la fissazione
degli occhi sulle righe del testo. In ogni caso, sia il linguaggio sia la
scrittura rappresentano il risultato di una specializzazione comunicativa:
parlare e ascoltare ingaggiano parti specifiche del corpo, cioè la lingua (da
cui linguaggio) e l'orecchio, ovvero la mano e l'occhio per scrivere e leggere.
Questo fatto ha causato l'inesorabile dimenticanza della
più antica, primitiva, originaria comunicazione umana, vale a dire quella
gestuale. Se la scrittura viene dopo il linguaggio, la parola è successiva ai
gesti. Prima che gli umani scrivessero e parlassero, tutto il loro corpo
comunicava e si esprimeva grazie ai gesti. Potremmo dire che anteriormente al
linguaggio vi era il «corporaggio». In effetti la parola prima e la scrittura
poi hanno reso molto piu semplice, precisa ed energeticamente più economica la
comunicazione, tuttavia hanno confìnato in periferia la totalità del corpo
comunicante, prediligendone solo alcune «parti» che nel tempo sono state
considerate le uniche degne e propriamente caratteristiche della comunicazione
umana.
Ciò che è avvenuto gradualmente nella vicenda
dell'umanità intera è quasi riassunto in ogni singola esistenza: a una certa
età il bambino, addestrando mano e occhi, impara a scrivere e leggere, ma già
da tempo parlava. Eppure, ancor prima che, piccolissimo, riecheggiasse le
parole originarie mamma, papà, pappa, costruendo via via frasi sempre più
complesse, già si esprimeva con i gesti del proprio corpo.
L'espressione del neonato avviene grazie a un corpo
tutto gestuale e risulta completamente comprensibile a chi lo ama, benché non
sia verbale. Chi non si è commosso di fronte al miracolo del bimbo che comincia
a cercare e seguire con gli occhi la voce ed il volto di chi gli è accanto e
con precisione sorprendente trova il seno a cui golosamente si attacca? Chi non
ha temato fin nelle ossa davanti al gesto del piccolo che tende la mano,
nonostante questa non riesca ancora ad afferrare nulla? Chi non ha sussultato
al cospetto del primo (e anche del secondo, del terzo ...) sorriso, che
restituiscequello della mamma o del papà? Chi non si è allarmato udendo quel
gesto specialissimo che è la voce (risonanza di un corpo irripetibile e perciò
inconfondibile per un genitore, anche in mezzo a milioni di voci infantili)
quando questa prende forma di grido o di pianto? E che dire della voce senza
parole del bimbo che modula felice qualche suono strano? Come non ricordarsi
dell'orgoglio provato assistendo alla prima presa di qualcosa con la mano, al
curioso gattonare, al prodigio di mettersi in piedi e di rialzarsi una volta
caduto, al camminare (gesto impossibile senza un atto di fiducia nel mondo)? E
le prime carezze, i primi baci e saluti con la mano? E gli inevitabili bronci?
Quanto comunica tutto il corpo di un bambino senza dire una parola, senza
scrivere una lettera o un sms!
Frequentemente il gesto è considerato come la
traduzione corporea di un ragionamento che lo precede: «Voglio manifestarti il
mio bene, potrei dirtelo, scriverlo, ma decido di raffigurare questo mio
pensiero spiegandolo con una carezza». Niente di tutto questo. I gesti non sono
spiegazioni di pensieri, ma sono pensieri e desideri nella loro più originaria
forma corporea; non sono espressioni al seguito di una precedente riflessione,
ma prime intenzioni del nostro corpo, aventi proprietà e sfumature che nessuna
parola o nessuno scritto riusciranno a rendere. Abbracciare è ben più che dire
o scrivere «ti voglio bene». I gesti sono anche il risultato dell' educazione
(«Saluta!», «Non mettere le dita nel naso!», «Non gridare») e del costume
tipico di una società: la gestualità di un italiano è ben diversa da quella di un
norvegese. Un corpo irripetibile, l'educazione ricevuta, il tessuto sociale e
culturale e un'unica, singolare vicenda umana rendono i gesti di ciascuno uno
speciale luogo di affioramento dell'identità, dello stile proprio. Dove per
«stile» non s'intendono le generiche, superficiali «buone o cattive maniere»,
ma la caratterizzazione unica, del portamento, del com-portamento. Insomma: il
gesto irripetibile della mano di un artista permette immediatamente di
identificare un dipinto di Picasso, di Caravaggio o di Giotto.
Le pagine che seguono cercano di accostare il mistero
di Gesù, il Figlio di Dio nella carne, accennando a due suoi gesti. Il primo,
ben conosciuto, lo mostra nell' atto di nutrirsi e sfamare chi ha fame, e ci
rivela pure il modo rivoluzionario e unico con cui egli ha guardato al cibo. Il
secondo, quasi del tutto sconosciuto, lo presenta nell'atto di cucinare. Certo,
il mistero del Signore non si esaurisce in questi due gesti; eppure essi sono
necessari per intuire chi egli sia, tant'è che i Vangeli non hanno mancato di
de-scriverli e fissarli in scrittura, affinché non ci si avvicini all'identità
del Figlio di Dio nella carne prescindendo da essi.
Da Giovanni Cesare Pagazzi, La cucina del risorto.
Gesù cuoco per l'umanità affamata, Ed. Emi. (Costo 5€)
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