"La tenerezza (...) ci porta a vibrare davanti a una persona con un immenso rispetto e con un certo timore di farle danno o di toglierle la sua libertà".
- AL, 127
Alcune persone che partecipano ai miei corsi di
consapevolezza di corporea e conoscenza di sé, mi hanno chiesto se convivere la
tenerezza e il perdono, oltre ad accomunare persone di tutte le religioni ed
anche atee, non abbia influenza anche sulla salute e lo sviluppo armonico della
persona, oltre che sull'orientamento della sua vita.
La mia risposta è si!
Quando le persone arrivano ai miei corsi, portano
tutta la storia della loro vita "embodied", incarnata nel
loro corpo. Se noi a volte mentiamo, il corpo non mente; se non lo rispettiamo,
si ammala.
Può anche accadere che certe "conversioni" ad
una vita diversa, e non intendo dire quelle religiose (sebbene pure quelle) partano
proprio dal corpo. Un volontarista,
ad esempio, partendo da un lavoro di rispetto, cura, ascolto del proprio corpo,
si rende conto che quella tensione costante in cui si ritrova è un qualcosa che
va oltre, che richiede l'imparare ad
abbandonarsi, o meglio l’imparare ad imparare ad abbandonarsi.
Purtroppo, le persone pensano che questo abbandono sia
solo frutto di tecniche e non un
dono. Dono che viene fatto dalla relazione con qualcuno che ci ama e
soprattutto da Qualcuno che ci ama sempre e nonostante tutto...
Non è la prima volta che le persone mi raccontano di
aver sperimentato molte tecniche di tutti i tipi, new age incluso,
ma di non essere riuscite ad abbandonarsi! È così, sembra un gioco di parole,
ma l'abbandono è un dono che va richiesto con "passione",
e spesso questa passione è sofferenza. Cercarlo solo nelle tecniche è un errore
(anche se esse possono aiutare, predisponendo ad accoglierlo).
Perchè? Perché agire in questo modo significa tornare ad essere volontaristi con l'illusione che "io con la mia volontà posso tutto". Il volontarismo allora, appena uscito dalla porta, rientra dalla finestra.
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Papa Francesco parla sempre di tenerezza che è la grazia che entra nell'uomo e lo trasforma. E' finita l'era dell'etica del dovere, è iniziata quella della felicità, della tenerezza, del gioco, dell'abbandono! Quante volte abbiamo paura della tenerezza!:
"La carità non può essere neutra, asettica,
indifferente, tiepida o imparziale! La carità contagia, appassiona, rischia e
coinvolge! Perché la carità vera è sempre immeritata, incondizionata e
gratuita! (cfr 1 Cor 13). La
carità è creativa nel trovare il linguaggio giusto per comunicare con tutti
coloro che vengono ritenuti inguaribili e quindi intoccabili. Trovare
il linguaggio giusto… Il contatto è il vero linguaggio comunicativo, lo stesso
linguaggio affettivo che ha trasmesso al lebbroso la guarigione. Quante guarigioni
possiamo compiere e trasmettere imparando questo linguaggio del contatto!"
Carlo Rocchetta, nel suo libro Abbracciami, scrive: "L'affetto
si comunica nella misura in cui s'incarna; esso non s'insegna, si trasmette
vivendolo. Dal piccolo che afferra la mano dell'adulto di fronte ad un
pericolo, fino al morente che viene accarezzato, dal conoscente che esprime il
saluto con una calorosa stretta di mano agli innamorati che si tengono
abbracciati, il contatto dei cuori e dei corpi esprime sempre il
bisogno di relazionalità. E più intenso è l'affetto, più forte è il
desiderio di un contatto vissuto, fin quasi a voler imprimere nell'altro/a la
propria immagine".
L'abbraccio ha anche una forza terapeutica che «si fonda sul coinvolgimento della corporeità in quanto espressione dell'io-spirituale («Io sono il mio corpo») e sul ruolo di mediazione che il contatto corporeo svolge nell'incontro tra chi abbraccia e chi è abbracciato. In questo scambio, tutti i sensi di percezione sono coinvolti (vista, udito, olfatto, gusto), ma è specialmente il tatto che entra in gioco; un senso, quest'ultimo, indispensabile per la stessa sopravvivenza degli esseri umani. Si può vivere, sia pure in forma ridotta e limitata, senza vedere, udire, odorare, gustare, ma non si può vivere se si è privi del sistema tattile che, non a caso, è il primo a svilupparsi nel neonato. Solo grazie a esso, il bambino percepisce i primi stimoli, si riconosce e si sente riconosciuto, introiettando nelle aree profonde del cervello le prime informazioni e rielaborandole man mano che cresce e si socializza.
Un ruolo particolare lo svolge, in quest'ambito, la
pelle, come nota con grande precisione Martha Welch: «La pelle, l'organo
sensoriale più esteso, ospita diversi tipi di recettori sensoriali, che
comunicano al cervello dove e in che modo avviene il contatto. Il contatto
piacevole può nascere da forme diverse come una carezza, una coccola, una
stretta, un abbraccio. Ogni contatto, per quanto leggero, trasmette una varietà
di messaggi al cervello per mezzo di impulsi elettrochimici. Un semplice
sfioramento può provocare una grande attività a livello cerebrale; perciò
qualunque contatto esercita un effetto notevole sul cervello».
Il contatto corporeo non solo è piacevole, ma
indispensabile, a livello sia emotivo che relazionale. Le diverse ricerche
scientifiche dimostrano come questo tipo di contatto possa farci sentire meglio
con noi stessi e nel rapporto col nostro ambiente, e come operi un effetto positivo
sullo sviluppo del linguaggio e sul quoziente intellettivo, trasformandosi in
motivo di mutamenti psicologici in colui che è toccato e, indirettamente, in
colui che tocca. L'abbraccio riesce, infatti, a contenere la totalità
dell'altro nel rispetto della sua storia, dei suoi vissuti e delle sue stesse
rigidità muscolari.
L'abbraccio terapeutico accoglie, non lega a sé. La
sua intenzione è d'invitare alla danza della vita, facendo riscoprire quella
voglia di amare e di essere amati nascosta in ogni creatura umana. L'abbraccio
scioglie le paure e fa crollare le mura che si sono erette, liberando da esse
con improvvisi pianti liberatori, magari dopo anni e anni di forzata prigionia.
L'abbraccio appartiene al linguaggio delle carezze.
Ora, è proprio delle carezze di sfiorare, non di possedere o dominare:
La carezza consiste nel non impadronirsi di niente,
nel sollecitare ciò che sfugge continuamente dalla sua forma verso un avvenire
- mai abbastanza avvenire - nel sollecitare ciò che si sottrae come se non
fosse ancora. Essa cerca, fruga. Non è un'intenzionalità di sviamento, ma di
ricerca. Cammino nell'invisibile. Esprime l'amore, ma soffre per
un'incapacità di dirlo. Ha fame di questa espressione stessa, in un continuo
incremento di fame. Va dunque al di là del suo termine: è tesa al di là di se
stessa, come se bussasse alla porta dell'essere.
Il linguaggio della carezza è un linguaggio sobrio,
discreto; la sua espressione più eloquente è il silenzio. La carezza tocca
senza prendere, avvicina senza dominare, trasmette una tenerezza che va oltre
ogni attesa, pianifica senza invadere, trasmette amore nel rispetto e
venerazione verso l'altro; esprime un ideale di amicizia che non si può
raccontare che con la musica.
Gli
abbracci sono carezze in atto (I
miei allievi, qui noteranno un qualcosa di simile con quello che nel
Feldenkrais è l’attura, che è un
qualcosa ancora più vivo, dinamico che la postura).
Ogni forma di abbraccio sincero manifesta un linguaggio di questo genere.
«Vi sono abbracci che volano oltre i confini del tempo e vanno a ricucire
strappi affettivi, abbandoni o tradimenti, per poi planare nella più profonda
pace e riconciliazione, come fiocchi di neve che scendono dolcemente nel
tormentato paesaggio interiore, dipingendo di delicatezza, di magia e di nuova
poesia, le tele del cuore». (pp. 41-43)
La tenerezza di cui abbiamo parlato sopra, tuttavia,
non si riesce a vivere se non si sa perdonare ed essere misericordiosi.
Perdono
Quando soffriamo ingiustizie, umiliazioni o qualche
genere di tortura, nessuno ci può fare tanto male come coloro che dovrebbero
amarci. Come reagiamo davanti ad un male che ci viene fatto con una certa
intenzionalità?
La cosa migliore è apprendere l'arte del
perdono (Aprender a perdonar), come scrive Jutta
Burgraf. Tuttavia, questa arte non ci richiede di non voler vedere questo
danno, atteggiamento pericoloso perché provoca una specie di cecità verso i
valori. L'indignazione e perfino la rabbia sono reazioni normali e perfino
necessarie in certe situazioni.
Ogni dolore negato permane per lungo tempo e può
essere la causa di ferite durature, quindi affrontarlo in modo adeguato è la
chiave per conseguire la pace interiore.
L'atto di perdonare è un atto libero, non una reazione
o un automatismo. Max Scheler afferma che una persona risentita si intossica da
sola. I ricordi amari possono riaccendere la collera, la tristezza e portare
alla depressione.
Le ferite non curate possono ridurre enormemente la
nostra libertà. Ma Sant'Ildegarda di Bingen ci insegna che "le ferite possono trasformarsi in perle".
Aiuta anche il "purificare la memoria", è infatti una legge di natura che il tempo cura alcune
piaghe.
Il perdono comincia quando, grazie ad una forza nuova,
una persona rifiuta ogni tipo di vendetta
e il
segreto è di non identificare l'aggressore con le sue opere. Ogni
essere umano è più grande delle sue colpe.
Quali sono gli atteggiamenti che ci dispongono al
perdono?
1 - L'amore, perché perdonare è amare intensamente.
Una persona può vivere e svilupparsi sanamente, quando si sente accettata come
è, quando qualcuno la ama veramente e le dice: "è bene che tu
esista".
2 - Comprensione. Va compreso che ciascuno ha
bisogno di più amore di quello che "merita", ognuno è più vulnerabile
di quello che sembra; e tutti siamo deboli e possiamo stancarci. Perdonare
significa credere nella possibilità di trasformazione ed evoluzione degli
altri.
3 - Generosità. Perdonare esige un cuore
misericordioso e generoso e non richiede il pentimento dell'altro.
4 - Umiltà. Noi non solo dobbiamo perdonare, ma
dobbiamo anche chiedere perdono. Infuriarsi per colpa di un altro può condurci
con grande facilità a dimenticarci della colpa propria. Dobbiamo perdonare come
peccatori, non come giusti, perché il perdono è più per compatire che per
concedere. Tutti abbiamo bisogno del perdono, perché tutti facciamo del male
agli altri, anche se talvolta non ce ne rendiamo conto.
Così come Dio ama noi, allo stesso modo vogliamo noi
amare gli altri. Secondo la parabola del buon samaritano, il nostro prossimo
non solo è colui che soffre, ma anche l’estraneo, colui che appartiene ad un
altro gruppo sociale, ad un’altra professione, ad un altro partito politico, ad
un’altra cultura, nazione o religione. Non dobbiamo etichettare o classificare
nessuno. La carità non ha limiti.
Misericordia
Don Andrea Mardegan in Annunciare la misericordia di Dio come cuore pulsante del Vangelo, scrive
che la Misericordia di Dio “non è un’idea astratta, ma una realtà
concreta con cui Egli rivela il suo amore come quello di un padre e di una
madre che si commuovono fino dal profondo delle viscere per il proprio figlio.
È veramente il caso di dire che è un amore “viscerale”. Proviene dall’intimo
come un sentimento profondo, naturale, fatto di tenerezza e di compassione, di
indulgenza e di perdono.” (MV, 6)
Comprendere in modo nuovo che “siamo chiamati a
vivere di misericordia, perché a noi per primi è stata usata misericordia. Il
perdono delle offese diventa l’espressione più evidente dell’amore
misericordioso e per noi cristiani è un imperativo da cui non possiamo
prescindere. Come sembra difficile tante volte perdonare! Eppure, il perdono è
lo strumento posto nelle nostre fragili mani per raggiungere la serenità del
cuore. Lasciar cadere il rancore, la rabbia, la violenza e la vendetta sono
condizioni necessarie per vivere felici. Accogliamo quindi l’esortazione
dell’apostolo: «Non tramonti il sole sopra la vostra ira» (Ef 4,26). E
soprattutto ascoltiamo la parola di Gesù che ha posto la misericordia come un
ideale di vita e come criterio di credibilità per la nostra fede: «Beati i
misericordiosi, perché troveranno misericordia» (Mt 5,7) è la beatitudine a cui
ispirarsi con particolare impegno in questo Anno Santo.” (MV, 9)
Riascoltare l’invito di Gesù a non giudicare e a non
condannare, a vincere sentimenti di gelosia e di invidia, a non parlar male del
fratello, a “saper cogliere ciò che di buono c’è in ogni persona e non
permettere che abbia a soffrire per il nostro giudizio parziale e la nostra
presunzione di sapere tutto.” (MV, 14)
Dio è in tutte le cose, anche in un abbraccio.
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