Non può vivere bene chi non è in pace con il suo corpo.

Maria Raffaella Dalla Valle
IL DIARIO

lunedì 25 aprile 2016

Tenerezza, misericordia e perdono (Ita/Es)






















"La tenerezza (...) ci porta a vibrare davanti a una persona con un immenso rispetto e con un certo timore di farle danno o di toglierle la sua libertà". 
- AL, 127

Alcune persone che partecipano ai miei corsi di consapevolezza di corporea e conoscenza di sé, mi hanno chiesto se convivere la tenerezza e il perdono, oltre ad accomunare persone di tutte le religioni ed anche atee, non abbia influenza anche sulla salute e lo sviluppo armonico della persona, oltre che sull'orientamento della sua vita.

La mia risposta è si! 

Quando le persone arrivano ai miei corsi, portano tutta la storia della loro vita "embodied", incarnata nel loro corpo. Se noi a volte mentiamo, il corpo non mente; se non lo rispettiamo, si ammala. 

Può anche accadere che certe "conversioni" ad una vita diversa, e non intendo dire quelle religiose (sebbene pure quelle) partano proprio dal corpo. Un volontarista, ad esempio, partendo da un lavoro di rispetto, cura, ascolto del proprio corpo, si rende conto che quella tensione costante in cui si ritrova è un qualcosa che va oltre, che richiede l'imparare ad abbandonarsi, o  meglio l’imparare ad imparare ad abbandonarsi.

Purtroppo, le persone pensano che questo abbandono sia solo frutto di tecniche e non un dono. Dono che viene fatto dalla relazione con qualcuno che ci ama e soprattutto da Qualcuno che ci ama sempre e nonostante tutto...
Non è la prima volta che le persone mi raccontano di aver sperimentato molte tecniche di tutti i tipi, new age incluso, ma di non essere riuscite ad abbandonarsi! È così, sembra un gioco di parole, ma l'abbandono è un dono che va richiesto con "passione", e spesso questa passione è sofferenza. Cercarlo solo nelle tecniche è un errore (anche se esse possono aiutare, predisponendo ad accoglierlo).

Perchè? Perché agire in questo modo significa tornare ad essere volontaristi con l'illusione che "io con la mia volontà posso tutto". Il volontarismo allora, appena uscito dalla porta, rientra dalla finestra.

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Papa Francesco parla sempre di tenerezza che è la grazia che entra nell'uomo e lo trasforma. E' finita l'era dell'etica del dovere, è iniziata quella della felicità, della tenerezza, del gioco, dell'abbandono! Quante volte abbiamo paura della tenerezza!: 

"La carità non può essere neutra, asettica, indifferente, tiepida o imparziale! La carità contagia, appassiona, rischia e coinvolge! Perché la carità vera è sempre immeritata, incondizionata e gratuita! (cfr 1 Cor 13). La carità è creativa nel trovare il linguaggio giusto per comunicare con tutti coloro che vengono ritenuti inguaribili e quindi intoccabili. Trovare il linguaggio giusto… Il contatto è il vero linguaggio comunicativo, lo stesso linguaggio affettivo che ha trasmesso al lebbroso la guarigione. Quante guarigioni possiamo compiere e trasmettere imparando questo linguaggio del contatto!"

Carlo Rocchetta, nel suo libro Abbracciami, scrive: "L'affetto si comunica nella misura in cui s'incarna; esso non s'insegna, si trasmette vivendolo. Dal piccolo che afferra la mano dell'adulto di fronte ad un pericolo, fino al morente che viene accarezzato, dal conoscente che esprime il saluto con una calorosa stretta di mano agli innamorati che si tengono abbracciati, il contatto dei cuori e dei corpi esprime sempre il bisogno di relazionalità. E più intenso è l'affetto, più forte è il desiderio di un contatto vissuto, fin quasi a voler imprimere nell'altro/a la propria immagine".

L'abbraccio ha anche una forza terapeutica che «si fonda sul coinvolgimento della corporeità in quanto espressione dell'io-spirituale («Io sono il mio corpo») e sul ruolo di mediazione che il contatto corporeo svolge nell'incontro tra chi abbraccia e chi è abbracciato. In questo scambio, tutti i sensi di percezione sono coinvolti (vista, udito, olfatto, gusto), ma è specialmente il tatto che entra in gioco; un senso, quest'ultimo, indispensabile per la stessa sopravvivenza degli esseri umani. Si può vivere, sia pure in forma ridotta e limitata, senza vedere, udire, odorare, gustare, ma non si può vivere se si è privi del sistema tattile che, non a caso, è il primo a svilupparsi nel neonato. Solo grazie a esso, il bambino percepisce i primi stimoli, si riconosce e si sente riconosciuto, introiettando nelle aree profonde del cervello le prime informazioni e rielaborandole man mano che cresce e si socializza.

Un ruolo particolare lo svolge, in quest'ambito, la pelle, come nota con grande precisione Martha Welch: «La pelle, l'organo sensoriale più esteso, ospita diversi tipi di recettori sensoriali, che comunicano al cervello dove e in che modo avviene il contatto. Il contatto piacevole può nascere da forme diverse come una carezza, una coccola, una stretta, un abbraccio. Ogni contatto, per quanto leggero, trasmette una varietà di messaggi al cervello per mezzo di impulsi elettrochimici. Un semplice sfioramento può provocare una grande attività a livello cerebrale; perciò qualunque contatto esercita un effetto notevole sul cervello».

Il contatto corporeo non solo è piacevole, ma indispensabile, a livello sia emotivo che relazionale. Le diverse ricerche scientifiche dimostrano come questo tipo di contatto possa farci sentire meglio con noi stessi e nel rapporto col nostro ambiente, e come operi un effetto positivo sullo sviluppo del linguaggio e sul quoziente intellettivo, trasformandosi in motivo di mutamenti psicologici in colui che è toccato e, indirettamente, in colui che tocca. L'abbraccio riesce, infatti, a contenere la totalità dell'altro nel rispetto della sua storia, dei suoi vissuti e delle sue stesse rigidità muscolari.

L'abbraccio terapeutico accoglie, non lega a sé. La sua intenzione è d'invitare alla danza della vita, facendo riscoprire quella voglia di amare e di essere amati nascosta in ogni creatura umana. L'abbraccio scioglie le paure e fa crollare le mura che si sono erette, liberando da esse con improvvisi pianti liberatori, magari dopo anni e anni di forzata prigionia.

L'abbraccio appartiene al linguaggio delle carezze. Ora, è proprio delle carezze di sfiorare, non di possedere o dominare:

La carezza consiste nel non impadronirsi di niente, nel sollecitare ciò che sfugge continuamente dalla sua forma verso un avvenire - mai abbastanza avvenire - nel sollecitare ciò che si sottrae come se non fosse ancora. Essa cerca, fruga. Non è un'intenzionalità di sviamento, ma di ricerca. Cammino nell'invisibile. Esprime l'amore, ma soffre per un'incapacità di dirlo. Ha fame di questa espressione stessa, in un continuo incremento di fame. Va dunque al di là del suo termine: è tesa al di là di se stessa, come se bussasse alla porta dell'essere.

Il linguaggio della carezza è un linguaggio sobrio, discreto; la sua espressione più eloquente è il silenzio. La carezza tocca senza prendere, avvicina senza dominare, trasmette una tenerezza che va oltre ogni attesa, pianifica senza invadere, trasmette amore nel rispetto e venerazione verso l'altro; esprime un ideale di amicizia che non si può raccontare che con la musica.

Gli abbracci sono carezze in atto (I miei allievi, qui noteranno un qualcosa di simile con quello che nel Feldenkrais è l’attura, che è un qualcosa ancora più vivo, dinamico che la postura). Ogni forma di abbraccio sincero manifesta un linguaggio di questo genere. «Vi sono abbracci che volano oltre i confini del tempo e vanno a ricucire strappi affettivi, abbandoni o tradimenti, per poi planare nella più profonda pace e riconciliazione, come fiocchi di neve che scendono dolcemente nel tormentato paesaggio interiore, dipingendo di delicatezza, di magia e di nuova poesia, le tele del cuore». (pp. 41-43)

La tenerezza di cui abbiamo parlato sopra, tuttavia, non si riesce a vivere se non si sa perdonare ed essere misericordiosi.

Perdono

Quando soffriamo ingiustizie, umiliazioni o qualche genere di tortura, nessuno ci può fare tanto male come coloro che dovrebbero amarci. Come reagiamo davanti ad un male che ci viene fatto con una certa intenzionalità?
La cosa migliore è apprendere l'arte del perdono (Aprender a perdonar), come scrive Jutta Burgraf. Tuttavia, questa arte non ci richiede di non voler vedere questo danno, atteggiamento pericoloso perché provoca una specie di cecità verso i valori. L'indignazione e perfino la rabbia sono reazioni normali e perfino necessarie in certe situazioni.
Ogni dolore negato permane per lungo tempo e può essere la causa di ferite durature, quindi affrontarlo in modo adeguato è la chiave per conseguire la pace interiore.

L'atto di perdonare è un atto libero, non una reazione o un automatismo. Max Scheler afferma che una persona risentita si intossica da sola. I ricordi amari possono riaccendere la collera, la tristezza e portare alla depressione.

Le ferite non curate possono ridurre enormemente la nostra libertà. Ma Sant'Ildegarda di Bingen ci insegna che "le ferite possono trasformarsi in perle".

Aiuta anche il "purificare la memoria", è infatti una legge di natura che il tempo cura alcune piaghe.

Il perdono comincia quando, grazie ad una forza nuova, una persona rifiuta ogni tipo di vendetta e il segreto è di non identificare l'aggressore con le sue opere. Ogni essere umano è più grande delle sue colpe.

Quali sono gli atteggiamenti che ci dispongono al perdono?

1 - L'amore, perché perdonare è amare intensamente. Una persona può vivere e svilupparsi sanamente, quando si sente accettata come è, quando qualcuno la ama veramente e le dice: "è bene che tu esista".

2 - Comprensione. Va compreso che ciascuno ha bisogno di più amore di quello che "merita", ognuno è più vulnerabile di quello che sembra; e tutti siamo deboli e possiamo stancarci. Perdonare significa credere nella possibilità di trasformazione ed evoluzione degli altri.

3 - Generosità. Perdonare esige un cuore misericordioso e generoso e non richiede il pentimento dell'altro.

4 - Umiltà. Noi non solo dobbiamo perdonare, ma dobbiamo anche chiedere perdono. Infuriarsi per colpa di un altro può condurci con grande facilità a dimenticarci della colpa propria. Dobbiamo perdonare come peccatori, non come giusti, perché il perdono è più per compatire che per concedere. Tutti abbiamo bisogno del perdono, perché tutti facciamo del male agli altri, anche se talvolta non ce ne rendiamo conto.
Così come Dio ama noi, allo stesso modo vogliamo noi amare gli altri. Secondo la parabola del buon samaritano, il nostro prossimo non solo è colui che soffre, ma anche l’estraneo, colui che appartiene ad un altro gruppo sociale, ad un’altra professione, ad un altro partito politico, ad un’altra cultura, nazione o religione. Non dobbiamo etichettare o classificare nessuno. La carità non ha limiti.

Misericordia
                                             
Don Andrea Mardegan in Annunciare la misericordia di Dio come cuore pulsante del Vangelo, scrive che la Misericordia di Dio “non è un’idea astratta, ma una realtà concreta con cui Egli rivela il suo amore come quello di un padre e di una madre che si commuovono fino dal profondo delle viscere per il proprio figlio. È veramente il caso di dire che è un amore “viscerale”. Proviene dall’intimo come un sentimento profondo, naturale, fatto di tenerezza e di compassione, di indulgenza e di perdono.” (MV, 6)

Comprendere in modo nuovo che “siamo chiamati a vivere di misericordia, perché a noi per primi è stata usata misericordia. Il perdono delle offese diventa l’espressione più evidente dell’amore misericordioso e per noi cristiani è un imperativo da cui non possiamo prescindere. Come sembra difficile tante volte perdonare! Eppure, il perdono è lo strumento posto nelle nostre fragili mani per raggiungere la serenità del cuore. Lasciar cadere il rancore, la rabbia, la violenza e la vendetta sono condizioni necessarie per vivere felici. Accogliamo quindi l’esortazione dell’apostolo: «Non tramonti il sole sopra la vostra ira» (Ef 4,26). E soprattutto ascoltiamo la parola di Gesù che ha posto la misericordia come un ideale di vita e come criterio di credibilità per la nostra fede: «Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia» (Mt 5,7) è la beatitudine a cui ispirarsi con particolare impegno in questo Anno Santo.” (MV, 9)
Riascoltare l’invito di Gesù a non giudicare e a non condannare, a vincere sentimenti di gelosia e di invidia, a non parlar male del fratello, a “saper cogliere ciò che di buono c’è in ogni persona e non permettere che abbia a soffrire per il nostro giudizio parziale e la nostra presunzione di sapere tutto.” (MV, 14)


Dio è in tutte le cose, anche in un abbraccio. 














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