Sto aspettando l'autobus, e il giovane che aspetta
accanto a me dice all'improvviso: "Il nome della comune anatra selvatica è ‘Histrionicus
histrionicus histrionicus'". Non ci sono problemi quanto al significato
della frase che ha pronunciato; il problema è come rispondere alla domanda: che
cosa intendeva fare pronunciandola? Supponiamo che egli abbia appena
pronunciato frasi del genere a intervalli casuali: questa potrebbe essere una
forma di pazzia. Renderemmo intelligibile la sua azione se risultasse vera una
delle ipotesi seguenti. Mi ha scambiato per qualcuno che ieri gli si è
avvicinato in biblioteca e gli ha chiesto: "Lei conosce, per caso, il nome
latino della comune anatra selvatica?". Oppure è appena uscito da una
seduta con il suo analista che lo ha esortato a vincere la sua timidezza
parlando con estranei. "Ma cosa dirò?", "Oh, quello che le
pare". Oppure è una spia sovietica che sta aspettando per un appuntamento
combinato in precedenza e pronuncia la parola chiave mal scelta che deve
consentire al suo contatto di identificarlo.
Questo esempio può essere considerato il nucleo
della teoria etica narrativa. Si trova in Dopo la virtù, cap.
15 dopo che si è spiegata l'atomizzazione dell'io.
Consiglio di leggere l'estratto e l'intero capitolo
XV: Le virtù, l'unità della vita umana e il concetto di
tradizione.
Non è quindi improprio cominciare con l'esaminare
alcune delle nostre intuizioni concettuali, per lo più date per scontate ma
palesemente corrette, circa le azioni e la soggettività umane, per dimostrare
quanto sia naturale pensare all'io in una forma narrativa.
È un luogo comune concettuale, sia per i filosofi
sia per i profani, che uno stesso segmento di comportamento umano possa essere
descritto correttamente in molti modi diversi. Alla domanda: "Che cosa sta
facendo il tale?" si può rispondere con pari verità e pertinenza:
"Sta scavando", "Sta facendo del giardinaggio", "Sta
facendo esercizio fisico", "Si sta preparando per l'inverno",
"Sta facendo un piacere a sua moglie".
Alcune di queste risposte descriveranno le
intenzioni del soggetto agente, altre le conseguenze preterintenzionali delle
sue azioni di alcune delle quali egli può essere consapevole e di altre no. È
importante osservare immediatamente che qualsiasi risposta alle domande su come
dobbiamo intendere o spiegare un determinato segmento di comportamento
presupporrà una qualche risposta preliminare alla domanda su come siano
collegate fra loro queste diverse risposte corrette alla domanda: "Che
cosa sta facendo il tale?" Infatti, se la sua intenzione primaria è di
mettere in ordine il giardino prima dell'inverno, e solo incidentalmente nel
fare questo fa anche esercizio fisico e un piacere a sua moglie, abbiamo un
tipo di comportamento da spiegare; ma se la sua intenzione primaria è di
compiacere la moglie facendo esercizio fisico, abbiamo da spiegare un tipo di
comportamento del tutto diverso, e dovremo ricercarne la comprensione e la
spiegazione in una direzione diversa.
Si potrebbe obiettare che se non ho compiuto
un'azione intelligibile, ho pur sempre compiuto un'azione o una serie di
azioni. Ma a ciò voglio rispondere che il concetto di azione intelligibile è
più fondamentale di quello di azione in quanto tale.
Le azioni inintelligibili sono candidati respinti
al ruolo di azioni intellegibili; e ammucchiare insieme le azioni
inintelligibili e quelle intelligibili in un unica classe di azioni, per poi
caratterizzare l'azione in base a ciò che gli elementi di entrambi gli insiemi
hanno in comune, significa commettere l'errore di ignorare questa circostanza.
Significa anche trascurare l'importanza essenziale del concetto di
intelligibilità.
Tale importanza è strettamente collegata con il
fatto che la distinzione più fondamentale fra tutte quelle contenute nel nostro
discorso e nella nostra prassi in questo campo è la distinzione fra gli esseri
umani e gli altri esseri. Gli esseri umani, diversamente dagli altri, possono
essere ritenuti responsabili di ciò di cui sono autori. Nel caso paradigmatico,
identificare un evento come un'azione vuol dire sussumerlo sotto un tipo di
descrizione che ci consente di considerare quell'evento come scaturente in modo
intelligibile dalle intenzioni, dai moventi, dalle passioni e dai propositi di
un soggetto umano. Vuol dire quindi concepire un'azione come qualcosa di cui
si è responsabili, riguardo a cui è sempre legittimo chiedere al soggetto una
spiegazione adeguata.
Quando un evento è palesemente l'azione prodotta
dalle intenzioni di un soggetto umano, e tuttavia non siamo in grado di
identificarla in questo modo, rimaniamo sconcertati sia intellettualmente sia
praticamente. Non sappiamo come reagire; non sappiamo come spiegare l'evento, e
neppure come caratterizzarlo minimamente quale azione intelligibile; la nostra
distinzione fra ciò di cui l'uomo è responsabile e ciò che è meramente naturale
sembra essersi sgretolata. E questo genere di sconcerto si manifesta
effettivamente in parecchie e svariate situazioni: quando ci accostiamo a
culture estranee o persino a strutture sociali estranee all'interno della
nostra stessa cultura, nei nostri incontri con certi tipi pazienti nevrotici o
psicotici (è proprio l'inintelligibilità delle azioni di tali "pazienti"
che induce a considerarli pazienti: le azioni inintelligibili tanto al soggetto
quanto a chiunque altro sono intese, giusta- mente, come una forma di
sofferenza), ma anche in situazioni quotidiane. Consideriamo un esempio.
Sto aspettando l'autobus, e il giovane che aspetta
accanto a me dice all'improvviso: "Il nome della comune anatra selvatica è ‘Histrionicus
histrionicus histrionicus'". Non ci sono problemi quanto al significato
della frase che ha pronunciato; il problema è come rispondere alla domanda: che
cosa intendeva fare pronunciandola? Supponiamo che egli abbia appena
pronunciato frasi del genere a intervalli casuali: questa potrebbe essere una
forma di pazzia. Renderemmo intelligibile la sua azione se risultasse vera una
delle ipotesi seguenti. Mi ha scambiato per qualcuno che ieri gli si è
avvicinato in biblioteca e gli ha chiesto: "Lei conosce, per caso, il nome
latino della comune anatra selvatica?". Oppure è appena uscito da una
seduta con il suo analista che lo ha esortato a vincere la sua timidezza
parlando con estranei. "Ma cosa dirò?", "Oh, quello che le
pare". Oppure è una spia sovietica che sta aspettando per un appuntamento
combinato in precedenza e pronuncia la parola chiave mal scelta che deve
consentire al suo contatto di identificarlo. In ciascuno di questi casi, l'atto
enunciativo diventa intelligibile perché trova il suo posto in una narrazione.
Si può ribattere che non è necessario fornire una
narrazione per rendere intelligibile un atto del genere. Tutto ciò che si
richiede è che siamo in grado di identificare il tipo di atto linguistico
pertinente (ad esempio: "Stava rispondendo a una domanda"), o un
qualche scopo a cui servisse la sua enunciazione (ad esempio: "Stava
cercando di attirare la tua attenzione"). Ma anche gli atti linguistici e
gli scopi possono essere intelligibili o inintelligibili. Supponiamo che l'uomo
alla fermata dell'autobus spieghi la sua azione dicendo: "Stavo
rispondendo a una domanda". Io obietto: "Ma non le ho mai rivolto
nessuna domanda di cui quella frase potesse essere la risposta". Lui dice:
"Oh, questo lo so". Di nuovo, la sua azione diventa inintelligibile.
E si potrebbe costruire facilmente un esempio parallelo per dimostrare che il
semplice fatto che un'azione serva a uno scopo riconoscibile non basta a renderla
intelligibile. Sia gli scopi sia gli atti linguistici richiedono un contesto.
Il tipo più familiare di contesto in cui e in
riferimento a cui gli atti linguistici e gli scopi diventano intelligibili è la
conversazione. Essa è un tratto così universalmente pervasivo del mondo umano,
che tende a sfuggire all'attenzione filosofica. Tuttavia, se si eliminasse la
conversazione dalla vita umana, che cosa resterebbe? Consideriamo dunque che
cosa comporta seguire una conversazione e trovarla intelligibile o
inintelligibile. (Trovare una conversazione intelligibile non significa
necessariamente capirla; infatti una conversazione che sento di sfuggita può
essere intelligibile, ma io posso non riuscire a capirla). Se ascolto una
conversazione fra altre due persone, la mia capacità di seguire il filo del
discorso implicherà la capacità di ricondurlo a un elemento di un insieme di
de- scrizioni in cui sono espressi il grado e il genere di coerenza della
conversazione: "una lite incoerente da ubriachi", "un serio dissenso
intellettuale", "una tragica incomprensione reciproca", "un
fraintendimento comico, addirittura farsesco, delle rispettive
motivazioni", "un acuto scambio di vedute", "una lotta per
il dominio reciproco", "un volgare scambio di pettegolezzi".
L'uso di termini come "tragico",
"comico", "farsesco", non è marginale per tali valutazioni.
Assegniamo le conversazioni a vari generi, proprio come facciamo per le
narrazioni letterarie. E in effetti una conversazione è un'opera drammatica,
sia pure molto breve, in cui i partecipanti sono non solo gli attori, ma anche
i coautori, che elaborano in accordo o in disaccordo reciproco la forma della
loro produzione. Poiché non è solo che le conversazioni appartengono a generi
nello stesso modo in cui vi appartengono le opere teatrali e i romanzi, ma esse
hanno inizi, parti centrali e conclusioni esattamente come le opere letterarie.
Contengono ribaltamenti e riconoscimenti; procedono verso un acme e poi si
allontanano da esso. All'interno di una conversazione più lunga possono esserci
digressioni e intrecci secondari, e addirittura digressioni all'interno delle
digressioni e intrecci secondari all'interno degli intrecci secondari.
Ma se questo vale per le conversazioni, vale anche, mutatis
mutandis, per le battaglie, le partite a scacchi, il corteggiamento, le
famiglie riunite per la cena, gli uomini d'affari che intavolano trattative per
un contratto, cioè per le transazioni umane in generale. La conversazione
infatti, se in- tesa in senso sufficientemente ampio, è la forma della
transazione umana in generale. Il comportamento della conversazione non è una
specie o un aspetto particolare del comportamento umano, anche se le forme
dell'uso linguistico e della vita umana sono tali che le azioni degli altri
parlano per loro tanto quanto le loro parole. Poiché questo è possibile solo
perché si tratta delle azioni di esseri dotati dell'uso della parola.
Sto presentando dunque sia le conversazioni in
particolare sia le azioni umane in generale come narrazioni messe in atto. La
narrazione non è opera di poeti, drammaturghi e romanzieri che riflettono su
avvenimenti che non possedevano alcun ordine narrativo prima che ne fosse stato
loro imposto uno dal cantore o dallo scrittore; la forma narrativa non è né
tra- vestimento né ornamento. Barbara Hardy, nel sostenere la stessa tesi, ha
scritto che "noi sogniamo in forme narrative, fantastichiamo in forme
narrative, ricordiamo, presagiamo, speriamo, disperiamo, crediamo, dubitiamo,
pianifichiamo, correggiamo, critichiamo, costruiamo, chiacchieriamo, impariamo,
odiamo e amiamo attraverso forme narrative" (Hardy, 1968, p. 5).
All'inizio di questo capitolo ho sostenuto che
nell'identificazione e nella comprensione riuscite di ciò che un altro sta
facendo procediamo sempre nel senso di collocare un episodio particolare entro
un insieme di narrazioni storiche, che riguardano tanto gli individui coinvolti
quanto i contesti in cui essi agiscono e patiscono. Adesso comincia a diventare
chiaro che se rendiamo intelligibili le azioni altrui in questo modo, è perché
l'azione stessa ha un carattere fondamentalmente storico. È perché noi tutti
viviamo delle narrazioni e intendiamo la nostra vita in base alle narrazioni
che viviamo, che la forma della narrazione è adatta per comprendere le azioni
degli altri. Fuorché nell'invenzione letteraria, le storie vengono vissute
prima di essere raccontate.
Naturalmente questo è stato negato in recenti
discussioni. Louis O. Mink, polemizzando con la tesi di Barbara Hardy, ha
affermato: "Le storie non vengono vissute, ma raccontate. La vita non ha
inizi, parti centrali o conclusioni; ci sono incontri, ma l'avvio di un fatto
appartiene alla storia che raccontiamo in seguito a noi stessi, e ci sono
separazioni, ma le separazioni definitive si trovano soltanto nella storia. Ci
sono speranze, progetti, battaglie e idee, ma solo nelle storie retrospettive
esistono speranze deluse, progetti falliti, battaglie decisive e idee
embrionali. Solo nella storia è l'America quella che Colombo scopre, e solo
nella storia il regno è perduto perché manca un chiodo" (Mink, 1970, pp.
557-8).
Che dire di fronte a queste asserzioni? Dobbiamo
certamente concedere che solo retrospettivamente le speranze possono essere
caratterizzate come deluse, le battaglie come decisive, e così via. Ma le
caratterizziamo in questo modo nella vita tanto quanto nell'arte. E a chi
affermasse che nella vita non ci sono conclusioni, o che le separazioni
definitive avvengono solo nelle storie, si sarebbe tentati di rispondere:
"Ma non hai mai sentito parlare della morte?".
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